Montagna Magica

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Categoria: people

(English) K2: Help for Dignified burial for Matthew Eakin

Posted on 17 novembre 202230 novembre 2022 by federico

Ci spiace, ma questo articolo è disponibile soltanto in Inglese Americano.

Posted in 8000, climbing, facebook, karakorum, peopleLeave a comment

Il gran casino degli Ottomila

Posted on 2 dicembre 2020 2 dicembre 2020 by federico

 

Premessa 

Il 25 Novembre scorso è stato pubblicato sul sito dell’American Alpine Club  un articolo di estrema importanza, scritto da Damien Gildea ; l’articolo sintetizza i risultati e i proponimenti della lunga ricerca operata da un autorevole Team internazionale di ricercatori di alpinismo, coordinati da Eberhard Jurgalski ( autore del sito 8000ers.com e cronista delle statistiche di tutte le scalate in Himalaya e Karakorum ) e composto da Rodolphe Popier ( ricercatore francese, collaboratore di 8000ers,membro Himalayan Database e Piolet D’Or ), Tobias Pantel ( tedesco, membro dell’Himalayan Database ), Thaneswar Guragai ( manager agenzia Seven Summit Treks, collaboratore per il Nepal del Guinness World Records, collaboratore 8000ers,HDB ), Damien Gildea (australiano,alpinista, esperto di Antartide) e Bob Schelfhout Aubertjin ( alpinista, ricercatore,scrittore, collaboratore di 8000ers.com).

Questa ricerca è in corso da anni e ha incluso interviste con decine di alpinisti d’alta quota, analisi fotografiche e comparative di migliaia di scatti, verifiche di immagini e mappe satellitari, verifica dei resoconti degli scalatori, ricerche cartografiche e topografiche.

Già nel 2019 , Eberhard Jurgalski sollevò il problema delle “Zone di Tolleranza” ( vedi documenti relativi su 8000ers.com ) per alcune vette di Ottomila particolarmente “problematiche” nella loro topografia e riconoscimento della vetta. La ricerca è poi proseguita analizzando decine e decine di scalate del passato , dal più remoto (rispetto alla storia dell’alpinismo sugli 8000) al più recente.

Il dibattito, particolarmente problematico, le resistenze di molti alpinisti nell’affrontare la questione spinosa, in alcuni casi anche le minacce di cause legali – per alcuni la questione metterebbe in causa la reputazione personale dell’alpinista – hanno portato alla necessità di un chiarimento e di una sintesi.

Damien Gildea è senz’altro riuscito nel difficile compito ; tuttavia, non si può non notare la dirompente forza di questo scritto e le implicazioni che esso pone nella comunità dell’Alpinismo di Alta Quota.

Vedremo, ora, se la comunità avrà sufficiente coraggio e saggezza nell’affrontare le tematiche e i problemi sollevati dalla ricerca pluriennale del gruppo di ricercatori e cronisti.

Con il gentile permesso di Dougald MacDonald, editor dell’American Alpine Club Journal e dell’autore (e amico) Damien Gildea, di seguito la mia traduzione dell’articolo in questione. Buona lettura.

LA STORIA DELL’ALPINISMO SULLE MONTAGNE PIÙ ALTE DEL MONDO NON È QUEL CHE SEMBRA

Negli ultimi anni, un gruppo internazionale di ricercatori si è reso conto di un grosso problema nella storia delll’alpinismo d’alta quota, in particolare quello degli Ottomila. Il gruppo, che si è formato attorno a Eberhard Jurgalski – principale cronista delle statistiche sull’alpinismo dell’Himalaya e del Karakorum, e il suo sito Web 8000ers.com – ha stabilito che su diverse vette di 8.000 metri molti alpinisti non hanno raggiunto la vetta, e che questo problema esiste da decenni. Solitamente l’errore è dovuto a una comprensibile ignoranza o confusione circa la natura esatta della topografia della vetta. Purtroppo, questa ricerca ci ha portato alla conclusione incredibile che è possibile che NESSUN ALPINISTA abbia raggiunto il vero punto più alto di TUTTE le vette degli Ottomila.

Sento di dover chiarire subito che la vetta è il punto più alto della montagna – e generalmente ce n’è uno solo. Quindi, in questo articolo, non scriverò “vetta principale” o “vera cima”, ma solo “vetta”. Tutto il resto è una anticima, un picco, un dosso o una cresta, ma non la vetta. Qualcuno potrebbe pensare che può fermarsi a 30 metri di distanza e 10 metri sotto il punto più alto e affermare convintamente di aver “scalato la montagna”: NO, non sei stato in cima.

Le domande che sono sorte negli ultimi anni non riguardano i già noti problemi con gli alpinisti che si fermano alla anticima rocciosa del Broad Peak o al picco centrale dello Xixabangma (Shishapangma): in realtà sono coinvolti altri 3 Ottomila.

Questa ricerca ha reso evidente che solo circa la metà degli scalatori che hanno rivendicato la vetta dell’Annapurna (8.091 metri) sono stati nel punto più alto e che quasi tutti gli alpinisti sul Manaslu (8.163 metri) non hanno proseguito fino alla vetta. Confusione anche sulla vetta del Dhaulagiri (8.167 metri).

I dossier completi che delineano i problemi storici e attuali con questi tre Ottomila sono disponibili gratuitamente su 8000ers.com.

Molte di queste “non vette” si sono verificate negli ultimi anni, durante il boom delle spedizioni commerciali sugli Ottomila, ma alcune delle scalate in questione coinvolgono anche alcuni dei più grandi nomi e scalate nella storia dell’arrampicata d’alta quota. Per quegli alpinisti che hanno salito solo uno o due 8000, queste vette mancate potrebbero non essere un problema. Tuttavia, i ricercatori ritengono che questi problemi abbiano un’importanza significativa per la documentazione storica di coloro che rivendicano, o che tentano di scalare, tutti i 14 Ottomila.

Va detto che nella stragrande maggioranza dei casi, il gruppo di ricerca ritiene che queste scalate incomplete [“non vette”,NdT] siano dovuti a errori compiuti in buona fede o per giustificabile ignoranza, piuttosto che a intenzionale disonestà. Al di sopra degli 8.000 metri, gli alpinisti sono provati sia fisicamente che mentalmente, non certo in uno stato ideale per condurre accurati rilievi topografici o confronti storici. La scarsa visibilità, il maltempo, la paura per la discesa e la preoccupazione per i partner aggravano le difficoltà.

Il team non vuole che queste problematiche, scoperte nella lunga ricerca effettuata, portino gli alpinisti a spingersi oltre la sicurezza in una data scalata. Inoltre, c’è anche una lunga storia di alpinisti che si sono fermati appena sotto le vette di alcune vette importanti, per rispetto delle credenze e tradizioni locali (ad esempio, il Kangchenjunga) o perché il punto più alto è una cornice instabile; tuttavia, queste preoccupazioni non si applicano ai tre Ottomila in discussione.

I ricercatori sono anche consapevoli della realtà socio-economica che è alla base della moderna scalata himalayana : vi è una notevole pressione finanziaria sugli Sherpa e su altre guide e lavoratori d’alta quota impiegati da tanti aspiranti agli Ottomila, per rassicurare i loro clienti sul “successo”. A seconda dell’Agenzia e del cliente, il “successo” può significare un bonus economico per la vetta, il che può incoraggiare gli Sherpa ad accettare cime più basse della vetta – specialmente se altri gruppi si fermano lì [ad esempio allestendo le corde fisse fino a un certo punto, NdT] o un bonus per portare il loro cliente oltre gli 8.000 metri di quota, il che potrebbe ridurre motivazione a continuare fino al punto più alto. Con un cliente lento e stanco, in una fila di alpinisti simili, tutti vicini alla cima della montagna e tenendo in mente la sicurezza, c’è un’enorme pressione sugli Sherpa per “chiamare buona la prima” [ ..della vetta, NdT] e un cliente grato ma inesperto potrebbe non sapere di non aver raggiunto la vetta, o semplicemente non preoccuparsene.

NUOVE FONTI DI INFORMAZIONE

Questi problemi sono emersi solo di recente per diversi motivi. L’ultimo decennio ha visto una proliferazione di foto condivise e propagate da social media degli Ottomila,tutte disponibili online. Questo nuovo materiale e altre informazioni hanno reso più facile per i ricercatori confrontare ascensioni e affermazioni e gettare nuova luce sulle ascensioni dei decenni passati.

Questa ricchezza di informazioni non era disponibile per i ricercatori, scrittori  o alpinisti fino a tempi molto recenti, un fattore che il gruppo di ricerca prende in considerazione nel giudicare ciò che chiunque avrebbe potuto sapere in precedenza sull’esatta ubicazione delle vette.

Per decenni, la cronaca dell’alpinismo in Nepal, sede di otto Ottomila, è stata metodicamente svolta dalla rinomata Elizabeth Hawley. Mentre la Hawley per lo più accettava la parola degli alpinisti, li “cuoceva alla griglia” senza pietà quando aveva dubbi, in particolare per i successi più grandi, e come capitò a un alpinista americano che tentò l’Everest nel 2003, non considerò l’essere giunto a  otto metri dalla vetta come accettabile.

Tuttavia, per le informazioni sulle topografie delle vette, la Hawley si è basata esclusivamente sui rapporti di alpinisti precedenti di cui si fidava per la loro esperienza e reputazione, e da foto relativamente scarse fornite dagli scalatori nel corso degli anni. Il gruppo di ricerca si è ora reso conto che questi alpinisti in alcuni casi si sono sbagliati e le foto devono essere attentamente esaminate e confrontate per comprendere appieno le varie topografie sommitali di ciascuna montagna.

Più di dieci anni fa, nel 2007, Eberhard Jurgalski notò nelle foto di “vetta” che gli alpinisti sul Manaslu sembravano fermarsi prima del punto più alto che i giapponesi raggiunsero nella prima salita del 1956 di quella montagna. Dopo ulteriori ricerche e discussioni con un gran numero di alpinisti esperti, la supposizione di Jurgalski si è dimostrata vera; infatti è apparso evidente che moltissimi alpinisti, sul  Manaslu si sono fermati in diversi punti prima della vetta, e che questo accadeva da anni.

Successivamente, nel 2012 e nel 2015, gli Sherpa che guidavano i clienti sull’Annapurna hanno pubblicato presunte foto e video della vetta che non sembravano essere sul punto più alto della cresta sommitale. Nelle successive discussioni e ricerche, Jurgalski si è rivolto al Centro aerospaziale tedesco (DLR), che aveva recentemente pubblicato nuove significative immagini satellitari e analisi fotografiche di alcune regioni himalayane. [Un risultato di questi lavori è un libro, Mountains: Die vierte Dimension (“Mountains: The Fourth Dimension”), pubblicato nel 2016]. Queste immagini si sono rivelate particolarmente interessanti sull’Annapurna.

ANNAPURNA

Cattura video del lato nord dell’Annapurna, che mostra le varie cime lungo la cresta sommitale, da C0 all’estremità orientale a Ridge Junction (RJ) a ovest. C2 e C3 segnano la vetta di 8.091 metri. (A) cresta superiore est. (B) Gully che porta a C1. (C) “French Couloir.” (SFE) Uscita sud. Foto di Joao Garcia

I nuovi dati del DLR hanno rivelato la topografia peculiare della lunga cresta sommitale dell’Annapurna, dimostrando che  due piccole cime, distanti appena 30 metri, potevano realisticamente essere considerate  il punto più alto della montagna, una situazione rara. Da allora, l’esame delle foto e dei rapporti degli alpinisti effettuato dal ricercatore Rodolphe Popier ha dimostrato che, per decenni, molti alpinisti dell’Annapurna non si sono fermati su nessuna di queste cime gemelle: alcuni si sono fermati vicino, altri significativamente più lontano.

Nella fotografia mostrata qui della cresta sommitale dell’Annapurna, ripresa dal lato nord nel 2010 da un aeroplano, i vari punti lungo la cresta sono stati etichettati da Popier come da C0 a C4, con “C” che denota “cornice”, poiché questa è la natura di gran parte della cresta. Viene anche mostrato il punto di uscita comune dalle ascensioni della parete sud (SFE), a est della vetta, così come lo svincolo di cresta (RJ) all’estremità occidentale. Gli alpinisti che si avvicinano alla vetta dell’Annapurna dalle vie del versante nord, come la maggior parte, sono saliti alla cresta sommitale in tre varianti: la cresta superiore est, un sottile canalone che porta al C1 e il “Couloir francese” all’estremità occidentale della parete, nel senso che finiscono in punti diversi su quella cresta, con viste diverse di quello che sembra essere il punto più alto. Il dossier di Popier sull’Annapurna, disponibile sul sito 8000ers.com di Jurgalski, entra molto più in dettaglio su questa topografia, identificando i punti di riferimento chiave e analizzando le foto di molti alpinisti per accertare la loro posizione più alta sulla cresta sommitale. L’analisi mostra che molti – circa la metà – non si sono mai fermati su nessuna delle due cime (C2 e C3) che ora si è dimostrato essere la vetta.

È importante ribadire qui che l’intento di ricerca e la pubblicazione di queste informazioni non è quello di denigrare nessuno scalatore, né di riscrivere completamente la storia dell’arrampicata di 8.000 metri, comprese le ascensioni storiche sull’Annapurna e su altre vette. L’arrampicata è molto di più che le mere altezze topografiche: riguarda le persone e la storia dell’alpinismo d’alta quota ; è un grande arazzo di persone, delle loro gesta ed esperienze, sopra e intorno a quelle grandi altezze. Come in altri filoni dell’alpinismo, alcuni alpinisti degli Ottomila hanno posto più enfasi sullo scalare una via difficile o aprirne una nuova, rispetto al mero arrivare sulla vetta ;  per tali alpinisti,l’aver raggiunto una cresta sommitale o una cima distinta ma non sommitale, o l’aver intersecato e unito la propria via a una precedentemente scalata , può essere stato sufficiente per rivendicare il successo. Il posto di questi alpinisti nella Storia è scolpito e le domande sui dettagli topografici precisi di alcune di queste scalate non cambiano l’importanza culturale delle loro imprese.

DHAULAGIRI

Dhaulagiri da nord, che mostra gli arrivi tradizionali alla cresta nord-est (A) e gli arrivi più comuni di oggi (B) alla cresta ovest della vetta. (P) Palo di metallo a est della sommità. (S) La vetta di 8.167 metri del Dhaulagiri. (WRF) Vetta rocciosa occidentale. Foto di Boyan Petrov

Per anni, molti alpinisti sulla regolare via della cresta nord-est del Dhaulagiri hanno seguito la parte finale di questa cresta verso la vetta ma alcuni di loro si sono fermati in un punto considerevolmente lontano, non raggiungendo la vetta vera e propria. A partire dalla fine degli anni Ottanta, in quel punto più basso era fissato un paletto, che indubbiamente ha creato confusione. Elizabeth Hawley respinse la richiesta di omologazione della vetta di una coppia italiana [Nives Meroi e Romano Benet,NdT] che si fermò dove era fissato il paloper errore nel 2005. La coppia tornò nel 2006 e completò la salita in vetta, come hanno fatto altri alpinisti sul Dhaulagiri [e per ragioni simili su Xixabangma e Broad Peak], perché costoro compresero e accettarono che se volevano che la loro cima fosse universalmente accettata o che fosse inclusa in qualsiasi elenco definitivo di salitori dei 14×8000, avrebbero dovuto proseguire la scalata fino al punto più alto, la VETTA.

Più recentemente, sul Dhaulagiri, la maggior parte degli alpinisti ha evitato la cresta nord-est superiore e ha invece attraversato in alto e a destra la parte superiore della parete Nord, prima di tagliare a sinistra,in uno dei due colouir per raggiungere la cresta sommitale. Su 8000ers.com, il dossier Dhaulagiri di Rodolphe Popier delinea le vari vie per la vetta e altre anticime. Come si vede nella foto sopra, gli alpinisti che prendono il canale Est arrivano sulla cresta sommitale a Ovest di un piccolo picco, il Western Rocky Foresummit (WRF), e devono continuare a spostarsi verso Est per raggiungere la vetta. Se gli alpinisti prendono il canale Ovest, escono sulla cresta più lontani dalla vetta e, dopo essere tornati verso Est, devono superare un’ulteriore piccola cima prima di incontrare il WRF  per poi proseguire fino alla vetta.

Avvicinandosi da uno dei due canali, alcuni alpinisti si sono fermati al WRF, non rendendosi conto che il punto circa 30 metri più a Est fosse la vetta. Diversi hanno notato che la vetta è solo circa uno o due metri più alta del WRF, e dato che queste cime sono ricoperte da un considerevole manto nevoso nella stagione post-monsonica, il gruppo di ricerca ha proposto che il Dhaulagiri dovrebbe essere considerato allo stesso modo dell’ Annapurna, con due vette accettabili che sono abbastanza vicine orizzontalmente e insolitamente vicine verticalmente.

 

MANASLU

La distanza tra C2, dove la maggior parte degli alpinisti del Manaslu interrompe la salita, e C4, la vetta di 8.163 metri, è di circa 20 metri in orizzontale e da tre a sei metri in verticale, a seconda delle condizioni della neve. Foto di Guy Cotter

Durante l’ultimo decennio, il Manaslu, l’ottava montagna più alta del mondo, è diventata un’alternativa più affidabile e accessibile al Cho Oyu (8.188 metri) per gli aspiranti alpinisti di 8.000 metri, molti dei quali si uniscono a spedizioni commerciali e usano la scalata per prepararsi per un futuro tentativo sull’Everest. Tuttavia, come capita con lo Xixabangma, una salita abbastanza semplice termina con un’ultima cresta difficile, una situazione che rende il Manaslu forse meno adatto a clienti guidati commercialmente, di quanto non sembri a prima vista.

Su 8000ers.com, il dossier Manaslu di Tobias Pantel esamina questa cresta sommitale. Uno scalatore che si avvicina alla cresta finale sul Manaslu non può vedere la vetta, ma può vedere il punto prominente C2, come mostrato nella foto a fianco, e alcune piccole cime prima di esso. La cresta sommitale continua oltre C2, su un’altra cima intermedia, prima di salire al punto più alto, indicato nelle foto qui come C4 – questa è la vetta di 8.163 metri del Manaslu. Per oltre un decennio, la maggior parte degli alpinisti che hanno rivendicato la vetta del Manaslu non sono arrivati ​​a questo punto –  perché non si erano resi conto che C2 non era la vetta, oppure non erano in grado di salire ulteriormente per raggiungere la vetta (C4), o semplicemente perchè non volevano rischiare.

Il gran numero di scalatori che c’è attualmente sul Manaslu ha reso questa situazione ancora più problematica. Sebbene possa essere fattibile per uno scalatore, una guida o uno sherpa fissare una corda da C2 alla vetta anche nella neve post-monsonica, probabilmente non è fattibile e certamente non sicuro avere dozzine di persone che attraversano una tale corda avanti e indietro nel ristretto lasso di tempo dell’”assalto finale”- e se negli ultimi anni circa 250-300 persone all’anno hanno rivendicato la vetta del Manaslu, in realtà la maggior parte di loro si è fermata intorno al punto C2. Questo è un esempio concreto di una delle insidie ​​e del paradosso delle spedizioni commerciali di massa: la vetta viene venduta ai clienti in base alla sua apparente fattibilità e quindi attrae un gran numero di clienti, ma quei grandi numeri finiscono per rendere il raggiungimento della vetta meno realizzabile.

La situazione sembra aggravarsi nella stagione autunnale post monsonica sul Manaslu, quando su quell’ultima cresta sommitale si formano neve alta e grandi cornici. Le condizioni primaverili pre-monsoniche di aprile e maggio di solito hanno meno cornici, rendendo la stretta traversata finale relativamente più sicura, ma le Agenzie di Guide Commerciali sono impegnate sull’Everest nella stagione primaverile pre-monsonica, quindi preferiscono preparare i clienti su una montagna più bassa durante l’ autunno precedente.

Se gli alpinisti vogliono solo scalare più in alto della quota 8.000 metri, sul Manaslu, come preparazione per l’Everest, allora può essere sufficiente seguire le corde fino al “selfie spot” drappeggiato con le bandiere di preghiere che nell’immagine è il punto C2. Ma se uno scalatore vuole essere riconosciuto inequivocabilmente come scalatore di  tutti i 14 Ottomila, o vuole accreditarsi come scalatore della vetta del Manaslu, allora è giusto che debba andare inequivocabilmente sulla vetta. Questo può significare andarci nella stagione pre-monsonica, pronti ad allestire la propria corda sulla cresta finale.

ZONE DI TOLLERANZA?

Il gruppo di ricerca 8000ers.com ha considerato e discusso il concetto di una “Zona di tolleranza” (TZ), una piccola regione intorno alla vetta, solitamente lungo una cresta che include cime leggermente più basse, che sarebbe accettabile raggiungere allo scopo di rivendicare una vetta e sufficiente per i cronisti d’alpinismo per registrare una salita di successo. Ma dove andrebbero stabiliti i confini di una tale zona?  10 metri dalla vetta vanno bene? Perché non 20 metri? 5 metri in verticale sono accettabili ma 30 metri in orizzontale sono troppo lontani? Date le diverse topografie di ciascuna area sommitale – il Manaslu è minuscolo e ripido, l’Annapurna lungo e indistinto – dovrebbero esserci parametri diversi per ogni montagna, e ciò potrebbe rivelarsi impraticabile.

Per i futuri scalatori, il quadro è chiaro. Dato che la natura delle regioni sommitali su queste vette problematiche è ora nota – e disponibile da alcuni anni, aiutata da supporti tecnologici per l’arrampicata – il gruppo di ricerca ritiene che non ci siano scuse per rivendicare una vetta di queste montagne senza raggiungere in modo verificabile il punto più alto, in particolare per coloro che vogliono rivendicare la salita tutti i 14 degli 8.000. Quindi non dovrebbe esserci nessuna zona di tolleranza su nessuna di queste vette per la rivendicazione di salite dopo il 2020. La vetta è la vetta. Quando si guarda alle salite passate, tuttavia, il gruppo di ricerca ritiene che sia giusto e pratico dare spazio a comprensibili confusioni o errori, e quindi le rivendicazioni della vetta dovrebbero essere rispettate per gli scalatori che storicamente hanno terminato nelle seguenti zone:

  • Annapurna: C1 a est fino al Ridge Junction (RJ) a ovest
  • Dhaulagiri: il Western Rocky Foresummit (WRF) e la vetta
  • Manaslu: da C2 a C4  (vedi foto precedenti)

È ora chiaro dai dossier su 8000ers.com che un numero di persone precedentemente considerato come scalatore di tutti i 14 Ottomila, in realtà non lo ha fatto, anche se si tiene conto della Zona di Tolleranza. Sebbene il gruppo di ricerca abbia tentato di acquisire il maggior numero possibile di foto e resoconti di alpinisti, per gran parte di questo non è stato possibile. Alcuni di questi alpinisti sono morti  ; quindi, causa la mancanza di informazioni da alcuni alpinisti, è impossibile affermare con audacia che nessuno ha scalato tutti e 14 gli Ottomila, ma è anche possibile che questa sia la verità. L’elenco più accurato e completo di collezionisti degli Ottomila è quello di Jurgalski su 8000ers. com.

Tuttavia, qualsiasi elenco di questo tipo è solo un elenco di pretendenti: al momento, non può esserci un elenco definitivo di alpinisti che sia stato verificato inequivocabilmente nell’ aver raggiunto tutte le vette.

Una lista può mai essere “definitiva”? La revisione è comune e continua in tutte le forme di Storia, inclusa la Storia dell’Alpinismo: i fatti sono raramente definitivi e ci sono molti aspetti nelle vicende da considerare. Un elenco definitivo per questo particolare argomento è probabilmente un’illusione, un’illusione di precisione che non può esistere, un’illusione di controllo sulla Storia che non potrà mai esistere.

Yannick Graziani festeggia sulla vetta dell’Annapurna dopo una salita in stile alpino di otto giorni della parete sud con Stéphane Benoist. I due sono usciti dalla parete ad est della vetta, oltre il punto C1 visibile in lontananza lungo la cresta sommitale, per poi arrancare fino alla vetta. Per essere certi di aver raggiunto il punto più alto, Graziani ha proseguito per C3 Ovest, poi è tornato a questo punto per iniziare la lunga discesa. Foto di Stéphane Benoist

TUTTO QUESTO E’ IMPORTANTE  ?

Il gruppo di ricerca ha cercato di giungere a conclusioni topograficamente accurate, eticamente corrette e socialmente accettabili, ma tutto ciò si è dimostrato estremamente difficile. Il gruppo è riluttante a imporre regole artificiose agli altri o a far luce sui piccoli passi falsi degli alpinisti ispiratori del passato. Ma sentono fortemente che è necessario tracciare una linea da qualche parte per chiarire il record storico, per rendere praticabile la cronaca futura delle ascensioni e per rispettare l’impegno di coloro che si sono sforzati di andare fino alla vetta, in particolare per coloro che sono tornati su una montagna dopo aver realizzato un errore precedente, con tutti i rischi, le spese e gli sforzi che ciò ha richiedeva.

Se si vogliono  trascorrere le vacanze facendo un po ‘di arrampicata divertente, è meglio andare sulla Sierra Nevada o a Chamonix che sull’Himalaya o sul Karakorum. Se si vogliono sperimentare le Grandi Catene Montane, si può andare in una qualsiasi delle altre cento vette o semplicemente fare trekking. Gli Ottomila sono duri, pericolosi, costosi e raramente divertenti, anche per gli standard strani e masochisti degli alpinisti.

Sulle montagne alte più di 8.000 metri, le persone mirano quasi sempre a salire in vetta. La stragrande maggioranza non sta esplorando nuovi terreni o spingendo i confini nel mondo dell’alpinismo. Questi sono picchi – trofeo, e non ottieni un trofeo per esserti fermato a 90 metri nello sprint dei 100 metri. Quasi tutti gli alpinisti che tentano vette di 8.000 metri, oggigiorno, sono lì per raggiungere un obiettivo unico – la vetta – non solo per ridere con gli amici o godersi la scalata.

Quindi, se noi alpinisti vogliamo esser onesti con noi stessi sul motivo per cui andiamo su queste montagne, allora dovremmo mantenere tale onestà durante tutto il processo ; il successo su un Ottomila significa andare fino al punto più alto.

SPAZIO PER.. RESPIRARE

Poiché questo articolo è stato completato nella tarda primavera del 2020, tutte le spedizioni primaverili ed estive in Nepal e nell’Himalaya indiano sono state annullate a causa del COVID-19; la stagione del Karakoram era molto probabile che iniziasse -e anche le stagioni del monsone in Nepal-Tibet sarebbero state cancellate. Questa pausa unica, a livello mondiale, ha dato alla comunità degli alpinisti una rara possibilità di fermarsi e tracciare una linea tra le pratiche che hanno distorto la nostra cultura e la Storia dell’Alpinismo.

La community potrebbe dichiarare che, dal 2021 in poi, se gli alpinisti vogliono essere inseriti nelle liste ufficiali delle vette e nelle cronologie definitive, verranno considerate solo le salite verificate in vetta, non in punti più bassi.

Quest’anno ci dà anche spazio per pensare al perché lo facciamo, perché scaliamo. È davvero per l’esperienza, per tutti i motivi intangibili a cui alludiamo nella letteratura o sui social media? O è semplice come voler spuntare un elenco, per qualche motivo? Diamo valore al primato sulla qualità, ai risultati sull’esperienza? La vetta è la vetta, ma l’arrampicata è più che la vetta.

Chi l’Autore: Damien Gildea è un alpinista australiano, autore di “Alpinismo in Antartide” e collaboratore dell’American Alpine Journal.

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Per “Berna” Matteo Bernasconi

Posted on 13 maggio 202013 maggio 2020 by federico

Matteo “Berna” Bernasconi, classe 1982, Ragno di Lecco dal 2003, guida alpina dal 2011 è morto ieri 12 Maggio 2020, travolto da una valanga nel Canale della Malgina in Valtellina.

Matteo Bernasconi (nato a Lecco nel 1982 , Ragno di Lecco nel 2003, Guida alpina dal 2011)
– 2006 nuova cascata di ghiaccio sulla parete SE del Baratro in Val di Mello con Giovanni Ongaro
– 2006 con Hervé Barmasse, Lorenzo Lanfranchi e Giovanni Ongaro ha aperto una nuova via sull’allora inviolata parete nord del San Lorenzo (Patagonia)
– 2008 con Fabio Salini compie la prima ripetizione italiana – e settima assoluta – della leggendaria via dei Ragni sul Cerro Torre (Patagonia)
– tra il 2010 e il 2013 tre tentativi di salire l’ultima grande parete ancora inviolata nel massiccio del Cerro Torre, ovvero la Ovest della Torre Egger, risolta infine dai compagni Matteo della Bordella e Luca Schiera nel marzo 2013 pochi giorni dopo il rientro in Italia di Bernasconi per impegni lavorativi.
– 2017 in Patagonia con Matteo Della Bordella e David Bacci apre una nuova via sulla parete est del Cerro Murallon
– 2020 (febbraio) in Patagonia con Matteo Della Bordella e Matteo Pasquetto ha aperto Il dado è tratto sulla nord dell’Aguja Standhardt, poco prima di ripetere la Via del 40esimo dei Ragni di Lecco sulla parete nord dell’Aguja Poincenot.

Ho già avuto modo di accennare alla parte più buia della mia passione nel raccontare Storie di Montagna, il confronto con la morte di donne, uomini, amiche, amici, famigliari ; la scarsa attitudine di confrontarsi col mistero della scomparsa fisica, l’ineluttabilità degli eventi che in montagna travolgono anche i più prudenti.

Non si è mai preparati quando muore un giovane padre, una figura così amata come quella di Berna : con i suoi riccioli, il suo sorriso e la sua simpatia travolgente, la sua disponibilità umile e professionale di alpinista e guida alpina.

Stamattina, mentre sorseggiavo il caffè, ho visto un post muto sulla bacheca di Riky Felderer, c’era una foto del Berna . Un pugno nello stomaco.

Nel 2013 ho cominciato a scrivere grazie a una serie di messaggi scambiati con Matteo Bernasconi, che l’anno prima aveva sfiorato la clamorosa impresa sulla Parete Ovest della Torre Egger assieme a Matteo Della Bordella, quando i due rimasero appesi alla vita “With a Little Help from…a friend” dopo una caduta, appesi entrambi a un friend dello 0.3mm .

Matteo Bernasconi e Matteo Della Bordella (arch Ragni Lecco)

Così è cominciata la mia personale vicenda di modesto scrittore e cronista di cose di montagna : per la simpatia travolgente, per la professionalità, la passione che Matteo Bernasconi mi trasmise immediatamente – e lo stesso vale per l’attuale Presidente dei Ragni di Lecco, il suo grande amico Matteo Della Bordella.

Il fatto che anche il suo soprannome sia anche un po’ il mio, “Berna”, sembra buffo e sciocco, contava qualcosa di speciale per me. Non lo scrivo per retorica, lo penso davvero: senza di te, probabilmente, non avrei trovato il coraggio di scrivere ad alpinisti famosi, esperti, per cominciare il mio cammino in questa passione per persone straordinarie, capaci di imprese straordinarie, come te. GRAZIE BERNA.

  Tentativo sulla Siula Grande, Matteo Bernasconi (arch Ragni Lecco)

Matteo, sei andato avanti troppo presto.

Un immenso abbraccio alla tua piccola, alla tua compagna, ai Ragni di Lecco e a tutti gli amici.

 

 

 

 

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La Via Perfetta : il libro postumo di Daniele Nardi

Posted on 17 dicembre 201920 dicembre 2019 by federico

LA VIA PERFETTA

Il libro

“La Via Perfetta / Nanga Parbat : sperone Mummery “ è il libro postumo di Daniele Nardi, scritto con Alessandra Carati ( scrittrice, editor e sceneggiatrice ) uscito a Novembre 2019 per Einaudi .

La tragica morte dell’alpinista laziale e del suo partner inglese Tom Ballard a fine Febbraio 2019 sullo Sperone Mummery del Nanga Parbat, ha trasformato quello che doveva essere il racconto di un lungo cammino verso un sogno, in un’autobiografia intima, piena di autocritica, sincera e consapevole, cruda nelle contraddizioni e amara nel racconto dei conflitti e nelle recriminazioni con gli altri ; nel contempo, piena di una passione inarrestabile, colma di amore per la propria moglie, di amicizia, stima e rispetto verso gli alpinisti con cui Daniele Nardi ha condiviso scalate impegnative, successi e fallimenti. Una storia piena di cadute e di successivi riscatti, contro avversità ben più temibili di qualche parete: malattie, fisiche e psichiche. Tutto questo, tra imprese alpinistiche di spessore crescente, certamente non da fuoriclasse  e in ambienti non banali, di esplorazione vera, soprattutto su vette meno famose ma affascinanti e difficili tra 6000 o 7000 metri, di Karakorum e Himalaya. 

Il gravoso carico emozionale e morale di completare e pubblicare il libro è stato preso sulle spalle da Alessandra Carati : senza precedente passione particolare per le Montagne, tantomeno verso l’alpinismo estremo, la sua conoscenza con Daniele Nardi – e con la sua famiglia, il suo ambiente nativo – si era trasformata in un’amicizia che l’ha portata a intraprendere il difficile trekking invernale verso il Campo Base del Nanga Parbat, per condividere alcune giornate con Daniele e Tom, nel Dicembre 2018 ; Alessandra ha voluto, non senza titubanze e problemi, provare veramente cosa significava l’alpinismo estremo invernale. La motivazione, lo spiega nell’intervista a seguire, era proprio capire cosa spinge un uomo a voler affrontare le brutali condizioni invernali su montagne colossali. Daniele, in quei giorni, le mostrò e poi le inviò un’email dove era scritto che se non fosse tornato dalla montagna voleva che lei finisse di scrivere il libro. 

“Perché voglio che il mondo conosca la mia storia”

La prima, netta sensazione al termine della lettura, è che Nardi abbia scritto un racconto sincero , una vera “messa a nudo”  – a differenza della gran parte dei libri scritti da alpinisti : pieni di retorica, autocelebrazione o noiosi trattati di motivazione , spesso mancanti di analisi di sé stessi ,delle proprie contraddizioni e miserie umane. Questo, assieme alla bella narrazione, è abbastanza inconsueto, visto che uno dei maggiori problemi di Daniele Nardi è sempre stato lo stile di comunicazione : spesso guascone e spaccone, carico di drammaticità, sopra le righe, amaro e a volte lamentoso , per la sindrome da isolamento sempre patita, lui alpinista “de Roma”, soprannominato “Romoletto” da Silvio Mondinelli, nei confronti dell’entourage alpinistico italiano, per la stragrande maggioranza “del Nord”. Con pochi sponsor e grandi difficoltà a finanziare le proprie imprese.

 E’ sicuramente grazie al grande mestiere di Alessandra Carati che la lettura scorre piacevole, incalzante e appassionante ; l’impianto narrativo è ben strutturato sui cinque tentativi di scalata dello sperone Mummery del Nanga Parbat, il grande indice di roccia che punta dritto alla vetta dalla base del Diamir, circondato da canali di scarico, sovrastato da enormi seracchi glaciali, accessibile soltanto da un ghiacciaio pericoloso e crepacciato . L’incipit di questi tentativi è rappresentato da una mail, affettuosa e preoccupata, di un amico di Nardi, il grande alpinista canadese Louis Rousseau, che tenta di dissuadere il laziale dal progetto del Mummery, con parole e motivazioni toccanti e impressionanti.

Il Mummery : sogno e ossessione di Daniele Nardi , attorno al quale tutto il resto della vita scorre e avviene; per ognuna di queste prove, lo sguardo pensieroso dell’alpinista sulla parete Diamir si sposta e indugia sugli avvenimenti della sua vita, la sua formazione come alpinista, la prima solitaria sulle Grandes Jorasses a 19 anni, frutto di una incontenibile e precoce passione, sviluppata durante le vacanze estive della famiglia sulle Alpi, e maturata quasi da autodidatta, anche sulle friabili e non facili pareti nord dell’Appennino Centrale, sul Gran Sasso e sul Camicia.

Capace di raggiungere l’Everest nel 2004, seppur con l’ossigeno, poi la cima di mezzo dello Shisha Pangma senza ossigeno. Nel 2006 scala il Nanga Parbat per la via Kinshofer e il Broad Peak. Nel 2007 è capospedizione sul K2 e sale in vetta senza ossigeno – ma un compagno di spedizione, Stefano Zavka, non torna più dalla montagna , dopo aver raggiunto la vetta ben dopo il tramonto. 

Nel libro traspare evidente l’autocritica di Nardi, inesperto nella gestione dell’emergenza e soprattutto del “dopo”, nel comunicare quanto è successo alla famiglia di Zavka. Un fantasma che lo accompagnerà a lungo. Il libro prosegue con i racconti asciutti sui passati successi , non indugia sulla descrizione alpinistica delle scalate –  tranne per quella che Daniele Nardi ha più amato, la via nuova tracciata sul Baghirathi III con Roberto Dalle Monache, via non conclusa sulla vetta ma notevole nel suo sviluppo e nelle difficoltà su una delle più belle e ambite vette himalayane. 

Paradossalmente, vincendo il prestigioso Premio Consiglio del Club Accademico Alpino Italiano per questa via, Nardi scrive nel libro che proprio qui cominciano “le interferenze” al puro amore per l’esplorazione dell’alta montagna : il suo desiderio di sentirsi accettato e riconosciuto da un ambiente che non lo considera quanto vorrebbe, la sua voglia di rivalsa,  la necessità di visibilità cominciano a intaccarne la mente.

La storia dei tentativi di realizzazione del suo sogno, la via dello Sperone Mummery – obiettivo per cui è stato deriso, additato come suicida, esaltato, illuso anche dopo la morte – prosegue tra belle pagine di montagna : specialmente nel racconto del primo tentativo, esaltante del 2013, effettuato in coppia con la grande alpinista francese Elizabeth Revol ; il duo toccò il punto più alto mai raggiunto sul Mummery, 6450 metri, a circa 250 metri dalla fine delle difficoltà tecniche e dall’uscita dello Sperone sul “grande bacino”, il plateau a 7000 metri, tra le impressionanti colonne, severe e pericolose, dei seracchi glaciali incombenti .   Sono poi narrate le vicende della mancata spedizione assieme a Tomek Mackiewicz ed Elizabeth Revol, il conflitto di visioni e obiettivi che li separa al Campo Base del Diamir ; conflitto che viene mitigato, dalle belle parole che Nardi riserva ad entrambi, piene di grande affetto e stima.

 1 – Kinshofer 2 – Mummery Spur 2013 Nardi/Revol 3 – Messner 1978 4 – Allen,Allan vetta dalla cresta Mazeno 5 -Allen,Allan tentativo Mazeno 

Il capitolo dedicato alla clamorosa rottura con Alex Txikon e Ali Sadpara a inizio 2016 , suoi compagni l’anno precedente nel tentativo di Prima Invernale fallito a duecento metri dalla vetta, è un racconto assai dettagliato di un “conflitto  annunciato” a livello umano : i tentativi di Nardi di mediazione tra Bielecki e Txikon, con quest’ultimo assillato da problemi economici, l’incidente in parete dove salva la vita allo stesso Bielecki ; la evidente scarsa motivazione di Nardi per la Kinshofer, i primi conflitti con Txikon e Sadpara e  la reciproca diffidenza, da subito, con Simone Moro , il fallimento di Elizabeth Revol e Tomek Mackiewicz quando a circa 7300 metri, con la concreta prospettiva di arrivare in vetta per la Messner-Eisendle, si ritirano ricevendo da Moro previsioni del tempo rivelatesi errate, forse la più strana vicenda avvenuta quell’anno . Confermata da Filippo Thiery, meteorologo di Nardi, che gli comunicò che era previsto bel tempo per 3 giorni ; si domandava come Karl Gabl – meteorologo di fama, da sempre di fiducia per Moro – avesse potuto sbagliare la previsione [ vedi le previsioni di quei giorni]. Mentre la francese e il polacco scesero velocemente i il 22 Gennaio ,  il 25 Gennaio Nardi, Txikon e Sadpara erano a C3, a 6700metri, con bel tempo . E la Revol abbandonò il Nanga : non aveva più tempo per riprovare la vetta. La coda polemica e di rottura tra Mackiewicz e Moro fu ancora più amara[ vedi Fonti (1) (2) (3) (4) (5)]

Poi la decisione di Moro e Lunger di aggregarsi alla via Kinshofer. Daniele Nardi ha aspettato tre anni prima di spiegare come secondo lui si arrivò prima alla decisione, poi alla rottura col resto del team, i conflitti con Txikon, la sfiducia totale di Moro vedendo Nardi che registrava i dialoghi , consegnando alla Carati  le registrazioni audio al Campo Base e la sua versione. Versione assolutamente discutibile, ovviamente, e di parte : ma nel libro c’è anche questa. E c’è una ulteriore critica a Moro per aver lasciato la Lunger ritirarsi da sola, in difficoltà, il giorno fatidico della Prima Invernale sul Nanga Parbat.

Al tempo, seguendo quella spedizione giornalmente, non mi sorprese la sfiducia nei confronti di Nardi da parte di Txikon, di Sadpara e infine di Simone Moro,  fino alla sua estromissione dal team . Ma nessuno esce indenne da errori e comportamenti ambigui, in questo capitolo , pur con diverse sfumature. E’, ovviamente, la sua versione : c’è tuttavia il particolare, non trascurabile, che i dialoghi sono fedeli trascrizioni di registrazioni audio, moralmente discutibili come ammette lo stesso Nardi, ma la co-autrice e l’editore Einaudi hanno ritenuto lecita e trasparente la loro pubblicazione [ podcast dal minuto 44:00 , intervista ad Alessandra su Radio24 ] 

 A tutt’oggi sono usciti diversi articoli della stampa specializzata sul libro ; è curioso, eufemisticamente parlando, notare che nessuno abbia avuto la curiosità di fare o farsi domande su questo capitolo scomodo, amaro, discutibile ma che è parte integrante, e ampia, del libro che Nardi ha scritto. 

Al lettore ogni riflessione o giudizio proprio, su una questione che non cambierà più nulla : la Storia è scritta e ha cancellato vecchie polemiche.  Questo capitolo della vita di Nardi svela un lato spiacevole che si preferisce generalmente occultare ; spoglia l’alpinismo dalla sua supposta idealizzazione , il suo essere non esente, come nessuna attività sociale umana lo è , da grandi rivalità, scorrettezze, miserie e opportunismo. Anzi : amplifica a dismisura pregi, qualità e paure, difetti. Di tutti, nessuno escluso. 

Certamente, Nardi non è stato capace di diplomazia e autocontrollo nei rapporti di “peso”, in spedizione. Ha pagato caro, questa sua spigolosità, anche in termini di credibilità. Va detto.

Il capitolo del “Quarto Tentativo” prosegue col racconto della conoscenza con Tom Ballard, che cercò Daniele Nardi, interessato al suo tipo di alpinismo : un’amicizia che si saldò nel 2017, in una bella spedizione nel Ghiacciaio remoto del Kondus, in Karakorum, una via di roccia su un 6000 sconosciuto e un tentativo su una montagna di 7000metri iconica, il Link Sar. I due, dopo aver aperto oltre 1500 metri di via sino alle prime difficoltà della parete Nord Est, si dovranno ritirare tra valanghe e maltempo continuo. Poi c’è il capitolo, doloroso, della tragedia di Tomek e il salvataggio di Elizabeth, dove Daniele contribuì in modo concreto, coordinando e coinvolgendo tutti i suoi contatti pakistani e fornendo indicazioni utili . I pensieri su Tomek, sulla sua personalità e la sua intima anima di sognatore, sono molto toccanti.   

Nel capitolo finale cambia il registro narrativo del libro: a raccontare, in prima persona, è Alessandra Carati.

Ripercorre il trekking al Campo Base, le difficoltà e il gelo, la sua intima esperienza come donna nel rapporto con i locali, l’enorme stima e rispetto che tutti i pakistani  tributano a Daniele, la consegna di materiali e beni umanitari nei poverissimi villaggi tra Skardu e la Valle del Diamir ; l’amicizia e il buon umore tra Tom e Daniele, i paurosi rombi delle valanghe che scaricava la montagna “la cui mole copre il cielo e ti sovrasta immensa”. Poi il ritorno in Italia, i messaggi fiduciosi di Daniele e quelli preoccupati per il materiale sepolto dalle valanghe.

Fino al momento decisivo : c’è una finestra di tempo discreto, è il 22 Febbraio, ormai da un mese i due sono fermi al Campo Base, allenandosi sui sassi facendo drytooling, camminando fino solo al Campo 1. Partono di gran lena e determinazione, fino al fatidico 24 Febbraio, dove salgono 300 metri di sperone dai 6000mt del C4, una tendina in parete. Sono ottimisti, pieni di gioia che comunicano ad Alessandra per satellitare, hanno trovato il sacco appeso in parete, in alto. Ma si sono sforzati forse troppo nei due giorni precedenti, con una tirata e tanto carico di materiali per l’attacco decisivo. E le ore finali , il silenzio. 

                                                                          Tom Ballard e Daniele Nardi , Nanga Parbat

L’epilogo lo conosciamo , Alex Txikon generosamente parte dal K2 con una squadra per soccorrere e cercare Daniele e Tom. Dopo giorni tremendi, tra ricognizioni a piedi e coi droni, mentre infuria un brutto dibattito mediatico, dove Messner, poi Moro e altri affermano la sicurezza che i due siano stati sepolti da una valanga, che la via era quasi suicida [vedi sezione Fonti sotto],che Tom era stato coinvolto in una impresa non sua e non era da farsi come prima esperienza su ottomila, le tifoserie sui Social eccetera –  i due sfortunati alpinisti vengono avvistati, morti, non travolti da una valanga ma appesi alle corde, probabilmente vittime di un incidente in discesa e ipotermia. La loro ultima telefonata pare fosse stata alle 20 di sera del 24 Febbraio , al Campo base: Daniele diceva che scendavano, le condizioni terribili. Qualunque fosse il motivo di abbandonare la tenda e sapere di andare incontro a ipotermia scendendo al buio, era evidentemente una tragica ed estrema necessità.

Il breve epilogo è  una testimonianza di vita, di sensazioni pure e sublimi sul Nanga e si conclude così :

“almeno una volta nella vita, a tutti dovrebbe capitare di incontrare un Daniele Nardi che con un sorriso ti spinge ad andare a vedere cosa c’è oltre la linea dell’orizzonte, e a camminare insieme a lui sul ghiacciaio” 

Daniele Nardi è uscito di scena con i suoi tanti difetti, la sua umanità brusca, diffidente, difficile e ambigua ; allo stesso tempo espansiva, positiva, piena di amore e di una incontenibile passione verso l’alpinismo e di sfida costante nell’affrontare i propri demoni. Una passione bruciante che gli è costata una breve vita – ma non vissuta da incosciente. 

Una vita che merita rispetto, che suscita e susciterà discussioni ma una vita degna: un uomo, alpinista che ha avuto coraggio sia in montagna che nel lasciare testimonianza, soprattutto, delle sue più intime debolezze senza smettere di pensare positivo, di cercare di rialzarsi a ogni caduta per ricominciare e migliorare ; che nella Storia dell’Alpinismo rimarrà come colui che ha tentato “una incredibile via invernale, direttissima, una via fottutamente visionaria su una delle montagne più temute del mondo” – come ci ha scritto l’alpinista Louis Rousseau : la Via dello Sperone Mummery.

 

Intervista alla co-autrice : Alessandra Carati 

                      Alessandra Carati,Daniele Nardi / Nanga Parbat CB

Alessandra, il tuo è un curriculum solido di esperienze nella scrittura per il cinema e il teatro e poi come editor e ghost writer su progetti editoriali molto vari ; nel 2016 sei stata coautrice, con il ciclista Danilo Di Luca, del suo libro autobiografico “Bestie da vittoria”, un duro atto di accusa (e autoaccusa) , di chi non ha più nulla da perdere e può finalmente parlare in vera libertà del “sistema” nei confronti del gigantesco problema del doping, un disvelarsi intimo di un’atleta che si confronta con l’ipocrisia di chi lo ha espulso dall’ambiente (squalificato a vita ) come capro espiatorio unico di quello che sembra un’intollerabile groviglio omertoso di interessi collettivi nello sport. Cito questo tuo impegno letterario perché ho l’idea che in parte l’incontro con Daniele Nardi ti abbia coinvolto e convinto a lavorare con lui, per la sua esperienza – altrettanto problematica, anche per diverse ragioni – nell’ambiente a cui ha dedicato la sua vita : l’Alpinismo . E’ così ? Quale è stata, comunque, la spinta decisiva – per una autrice assolutamente distante e non coinvolta da una passione personale per la montagna – a intraprendere la scrittura di un libro con un’alpinista ?

Quando mi sono accostata alla storia di Daniele, non conoscevo l’alpinismo e non sapevo nulla sulla qualità dell’ambiente. Ho scelto di abbracciare il progetto perché Daniele mi incuriosiva. Come ho scritto nel libro e come molte altre persone, mi chiedevo perché qualcuno scegliesse di mettersi così duramente alla prova, su una montagna di 8000 metri, in inverno, per cinque volte consecutivamente. Volevo capire che cosa lo muoveva, intimamente e come essere umano.

Leggendo il libro, ho trovato straordinario il coraggio di Daniele per la cruda e sincera auto analisi, che non risparmia dettagli inediti su un suo periodo di depressione e burnout , non si fa sconti sugli errori nella vita privata così come quelli in alcune spedizioni, a causa del suo carattere molto difficile. Eppure, il lato positivo, di pura passione sincera, guascone ed empatico emerge e si fa apprezzare. Come hai vissuto questo aspetto contradditorio di Daniele ? 

Daniele era tante cose insieme. La scrittura, per fortuna, resiste alla tentazione di ridurre in modo semplicistico le persone e mette al riparo dal giudizio. Così facendo ci permette di comprendere di più, accettare di più, amare di più. 

Mentre lavoravate al libro, hai dovuto litigare con lui su come voleva esporre le sue emozioni, le sue idee e i fatti accaduti nelle grandi montagne di Karakorum ed Himalaya ?

Non c’è stato il tempo di confrontarsi sulla forma con cui costruire il racconto. Abbiamo lavorato insieme nella raccolta e nella scelta dei materiali, poi ho proceduto alla scrittura da sola, con tutte le decisioni che ne discendono.

Non posso non affrontare un tema molto delicato e scottante. Da quando è uscito il libro, ho letto articoli e recensioni ma per chiunque lo abbia letto, c’è stato un silenzio quasi totale e assordante su una parte precisa: il Tentativo Quattro, ovvero la spedizione 2015-2016 con Txikon e Sadpara, vissuta tra polemiche amare ; quello che stupì, all’epoca, è che Daniele si difese molto tenacemente soltanto dalle accuse di Txikon (poi rivelatesi piuttosto labili e infondate) di mancata contribuzione economica o addirittura di essersi “inventato” la caduta sul muro Kinshofer . Daniele non replicò, puntualmente, alle forti accuse di Moro.Questo pesò molto nel giudizio collettivo verso di lui. Così come Daniele stesso scrive.

Nel libro hanno colpito i dialoghi brutali e polemici di quanto accadde . E divergono rispetto alle versioni di Simone Moro. Ho ascoltato la tua intervista alla trasmissione di Alessandro Milan su Radio24, dove affermi che i dialoghi sono riportati “alla virgola” perché provengono dalle registrazioni che Nardi ha fatto nella tenda comune, mentre era in corso la riunione definitiva con tutti gli altri. Che la cosa non è affatto illegale, tant’è che Einaudi l’ha valutata pubblicabile senza censure. Lo confermi ?  Qualcuno ti ha contattato per precisare o smentire quanto è scritto ? Cosa pensi della reazione della stampa, a proposito?

Le scene del quarto tentativo, che si svolgono nella tenda e in cui sono presenti Simone Moro, Alex Txikon, Tamara Lunger, Alì Sadpara e ovviamente Daniele, sono state ricostruite interamente a partire dalle registrazioni che Daniele aveva fatto. Non ho tratto le battute e il loro contenuto da un racconto mediato da Daniele, ma direttamente e fedelmente dagli audio. Sono le voci dei protagonisti.

Per esempio c’è un particolare del racconto su cui sono state date versioni discordanti, ed è il modo in cui si uniscono le due spedizioni. Moro ha dichiarato pubblicamente, nel suo libro ‘Nanga’ e in alcune interviste, di essere stato invitato da Alex Txikon, mentre negli audio ripete più volte che è lui a chiedere di potersi unire, tanto che insiste su quanti soldi deve pagare per il materiale e il lavoro fatto nell’attrezzare la montagna. È una differenza sottile, eppure sostanziale, perché definisce i rapporti di forza, i pesi e gli equilibri all’interno della squadra che tenterà la prima invernale del Nanga Parbat. Nessuno finora ha chiesto conto in alcun modo di quella parte del libro, tantomeno ne ha parlato la stampa. In onestà, se fossi un giornalista, sarei incuriosito, farei delle domande.

Veniamo alla parte più emozionante e dolorosa, quella che hai praticamente scritto da sola. Il tentativo finale: la tua decisione di fare il trekking e passare giornate al Campo Base per vivere veramente l’esperienza di una spedizione invernale ; l’atmosfera tra Daniele e Tom, le lunghe attese e il finale tragico.

Come hai vissuto quei terribili giorni? Hai pensato di mollare tutto, nonostante la richiesta di Daniele nella sua famosa email?

Durante le settimane dei soccorsi il progetto del libro non mi sfiorava nemmeno, ogni energia, ogni pensiero erano per Daniele e Tom. Mi angosciava saperli persi dentro il gigantesco massiccio del Nanga. E poi c’erano Daniela e Mattia, non riuscivo nemmeno a immaginare cosa potessero sentire in quel momento.

Più avanti sono stata tentata di lasciar perdere, ma la volontà espressa da Daniele era chiarissima e il suo mandato mi inchiodava. Avevo dato la mia parola.

Quale conclusione, se mai ci sia, hai elaborato nella tua anima, riguardo alla vita e alla morte di Daniele?

Non ho conclusioni, idee, tantomeno opinioni, sulla morte di Daniele. Tutto quello che ho sfiorato, intuito e a cui ho tentato di dare forma è dentro il libro. Ogni lettore può muovere da lì per lasciare emergere il sentimento con cui guardare alla sua figura, alla sua vita.

Intervista a Louis Rousseau 

Louis Rousseau è uno dei più forti alpinisti canadesi . E’ nato nel 1977 nel Quebec e ha cominciato a scalare a 15 anni. Tra il 1999 e il 2010 ha arrampicato moltissime cime sulle Ande, accumulando esperienza sui 6000. Dal 2007 ha cominciato a scalare le grandi montagne del Karakorum e dell’Himalaya, aprendo una parziale via nuova sul Nanga Parbat nel 2009, ha tentato una via nuova invernale sulla parete Sud del Gasherbrum I. Ha scalato Gasherbrum II , Broad Peak e tentato varie volte il K2. Ha scalato 7000 come il Khan Tengri e il Tilicho Peak . Sempre senza ossigeno, perseguendo lo stile alpino e un’etica molto ferrea. Ha scalato assieme ad Adam Bielecki, Gerfried Goschl,Alex Txikon, Rick Allen e tanti altri.

Che rapporto hai avuto con Daniele Nardi ?

Non ho mai conosciuto Daniele di persona. Dal 2015 abbiamo avuto contatti sporadici via internet. Ho sentito parlare di Daniele dopo la via al Bhagirathi III del 2011 e del tentativo invernale del 2013 con Elizabeth Revol.  Dopo di che, Alex Txikon mi ha contattato per unirsi a lui, Daniele e Ali Sadpara per il tentativo invernale di Nanga Parbat nel 2016. Ho detto di no. Daniele mi ha invitato per il tentativo di Nanga 2019 ma ancora una volta ho declinato l’invito e ho cercato di convincerlo a non ripartire. Durante la spedizione abbiamo avuto contatti regolari via WhatsApp, soprattutto quando hanno perso un sacco di attrezzature [seppellite dalle valanghe,ndR]. Gli ho proposto di spedirgli alcune attrezzature dal mio deposito in Pakistan. Dopo tutto ciò, erano ok, avevano l’essenziale per continuare la loro ascesa.

Cosa ne pensi di Daniele, quali impressioni e sentimenti lo hanno dato a te – come scalatore prima, poi come uomo? 

Era un alpinista davvero motivato e orientato all’obiettivo. Sapeva arrampicare sia su percorsi tecnici e difficili tanto quanto aveva ottime prestazioni in alta quota. Durante i nostri dialoghi, ho realizzato che era un uomo molto gentile. Molto idealista, un sognatore che voleva sempre migliorare e tendere ad essere una versione sempre migliore di sé stesso. Durante la nostra ultima conversazione mi ha detto una cosa importante, che voleva “cercare di aiutare le persone a cambiare la loro vita ispirandole”. Quindi di sicuro Daniele era un uomo che voleva cambiare il mondo che lo circondava : non si trattava di alpinismo, di raccogliere cime o cercare le prime salite, era molto più una ricerca intima e personale.

So che ti ha chiesto di unirti al suo sogno sul Nanga, il Mummery ; poi, dopo uno scambio di mail gli hai detto che non volevi partecipare e gli hai chiesto di ripensarci.  Puoi spiegarmi meglio, dopo la tua via nuova aperta sul Nanga nel 2009, cosa ti ha spinto alla decisione che avevi chiuso con quella montagna?

Inizierò la mia risposta con qualcosa che ho scritto a Daniele : “Lo troverete un po ‘esoterico, ma credo nella maledizione della montagna killer. C’è qualcosa sul Nanga Parbat che ci acceca come alpinisti e ci attira ancora di più verso il pericolo rispetto agli altri 8000m. Penso che sia a causa di tutto il folklore intorno a questa montagna. Si inizia a leggere molto su questa montagna che si trasforma in fascino e passione.           E ‘davvero attraente e nasce il desiderio di andarci. Quando però fui lì nel 2009, due alpinisti hanno perso la vita e dopo ci fu molta discordia, a riguardo. La storia recente dei tentativi invernali è piena di discordia, incidenti, giochi dietro le quinte e ora morti. È una vera tragedia. Non ci sono altre parole per descrivere gli ultimi anni. Basti pensare all’attacco terroristico del 2013. Ho visto Daniele “entrare” in questo spirito e volevo fare qualcosa per scoraggiarlo. Gli ho chiesto se avesse voglia di trovare,  con me, un progetto completamente diverso e positivo, ma lui mi rispose : “se cambi idea e vuoi unirti a me e Tom, fammelo sapere.”

Pensi che per un’ alpinista, il pericolo inizia nel momento in cui è troppo coinvolto per una montagna, un obiettivo particolare? 

Per un’alpinista, il pericolo inizia non appena entra nella jeep che lo porterà all’inizio del trekking verso il Campo Base ; il che significa che sin dall’inizio della spedizione ci sono pericoli. L’alpinismo è uno sport estremamente pericoloso. Non ci sono molti altri sport in cui si va in vacanza e si torna senza un tuo amico. Però, anche se ci si sente “troppo coinvolti emozionalmente” per un progetto o una montagna, questo non significa che ci si trovi in un pericolo maggiore. Questo può influenzare il nostro processo decisionale? Certamente sì, quando ci sono altri obiettivi oltre all’arrampicata e al sentirsi liberi, anche obiettivi che non ammetti a te stesso. Porterai sempre in una spedizione le cose che non hai risolto a casa. Nulla di ciò che farai in montagna può risolverli, al contrario.

So che Daniele e Tom erano professionisti e hanno voluto scalare il Nanga Parbat, in inverno, per una nuova via, purtroppo hanno avuto un terribile incidente. Non sapremo mai esattamente cosa è successo ed è terribile per le famiglie. Più di ogni altra cosa, non sapremo mai il loro stato d’animo prima dell’incidente. Fu una distrazione, è stato il risultato di decisioni errate, un incidente in montagna? Non lo sappiamo. Quello che sappiamo è che i due alpinisti erano veramente esperti e si completavano a vicenda molto bene . Daniele aveva una solida esperienza di alta quota  in ambiente invernale e Tom era uno dei migliori alpinisti su ghiaccio del mondo. Non credo che il loro stato emotivo abbia avuto nulla a che fare con la loro morte. È stato un tragico incidente.

Fonti e bibliografia varia

Daniele Nardi 

Nanga Parbat ed Elizabeth Revol, primo tentativo al Mummery : http://publications.americanalpineclub.org/articles/13201212505/Nanga-Parbat-Diamir-Face-Mummery-Rib-winter-attempt

Translimes Expedition con Tom Ballard, Kondus Glacier, Link Sar :

http://publications.americanalpineclub.org/articles/13201214726/Kondus-Glacier-Link-Sar-Northeast-Face-Attempt-Fiost-Brakk-and-Other-Ascents

Farol West,unclimbed peaks in Karakorum :

http://publications.americanalpineclub.org/articles/13201212928/Margheritas-Peak-5400m-South-Ridge-Open-Eyes-K7-West-6615m-Southwest-Pillar-Attempt-Farol-West-6370m-West-Face-Telegraph-Road

Baghirathi III :

https://www.planetmountain.com/it/notizie/alpinismo/bhagirathi-il-report-della-via-di-nardi-e-delle-monache.html

Thalay Sagar, con Alex Txikon, Ferran Latorre e altri :

http://publications.americanalpineclub.org/articles/13201213829/Thalay-Sagar-Northwest-Ridge-Partial-New-Route

Tom Ballard 

Le sei grandi pareti Nord in invernale, solo :

https://www.planetmountain.com/it/notizie/alpinismo/tom-ballard-completa-le-sei-nord-delle-alpi-in-inverno-ed-in-solitaria.html

Drytooling, la via più difficile al mondo :

https://www.planetmountain.com/it/notizie/alpinismo/tom-ballard-libera-una-via-di-d15-in-dolomiti-il-grado-di-drytooling-piu-difficile-al-mondo.html

Tomek Mackiewicz 

(4) il lungo post dopo la spedizione 2016, le polemiche sulla vetta, i messaggi satellitari di Moro sul maltempo :

http://czapkins.blogspot.com/2016/06/witajcie.html

Alessandra Carati 

Intervista a Radio 24, podcast, con Alessandro Milan (dal minuto 44:00 in avanti):

https://www.radio24.ilsole24ore.com/programmi/uno-nessuno-100milan/puntata/un-robot-servizio-diritti-civili-080538-AC8siq0

Simone Moro

su Mummery, Nardi e Ballard

https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/03/10/daniele-nardi-e-tom-ballard-simone-moro-ho-visto-ogni-giorno-le-valanghe-che-cadono-sullo-sperone-mummery-fa-paura-andarci-e-un-suicidio/5026985/

https://www.desnivel.com/expediciones/expediciones-alpinistas/simone-moro-intentar-el-espolon-mummery-en-invierno-es-como-jugar-a-la-ruleta-rusa/

https://www.desnivel.com/expediciones/simone-moro-sobre-la-ruta-que-intentaban-daniele-nardi-y-tom-ballart-en-el-nanga-parbat-el-espolon-mummery-es-casi-suicida/

https://www.thetimes.co.uk/article/partner-of-lost-climber-tom-ballard-was-obsessed-with-killer-mountain-mtmzkflhr

su Nardi , 2016 expedition 

https://www.montagna.tv/93793/nanga-parbat-la-verita-di-simone-moro-a-filippo-facci/

http://alpinistiemontagne.gazzetta.it/2016/11/28/come-si-arrivo-alla-rottura-con-nardi/

Reinhold Messner

 https://www.ladige.it/news/cronaca/2019/03/09/tragica-morte-ballard-nardi-reinhold-messner-gl-iavevo-detto-non-andarci

Mckiewicz/Revol e il tentativo di vetta abbandonato per maltempo

(1) 19 Gennaio: “Giorni decisivi sul Nanga.Tomek Mackiewicz ed Elizabeth Revol hanno individuato il colouir che conduce alla piramide di vetta[..]” 

https://m.facebook.com/groups/185186314867223?view=permalink&id=1058684744184038

(2) 22 Gennaio: “Tomek ed Elizabeth sono a 7400 e stanno salendo[..]Alex,Alì e Daniele sono a C2[..]”

https://m.facebook.com/groups/185186314867223?view=permalink&id=1062366990482480

(3) 22 Gennaio: “Simone Moro avvisa che Tomek ed Elizabeth sono a 7300mt e il tempo sta peggiorando.Tentativo di vetta dunque abbandonato[..]”

https://m.facebook.com/groups/185186314867223?view=permalink&id=1062341597151686

(5) le previsioni di quei giorni :

http://web.archive.org/web/20160121193744/https://www.mountain-forecast.com/peaks/Nanga-Parbat/forecasts/8125

 

sulla tragedia al Mummery 

http://montagnamagica.com/la-tragedia-sullo-sperone-mummery-fanatismi-e-alpinismi/

 

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Tomek Mackiewicz : Il Sognatore Ribelle

Posted on 13 maggio 201913 maggio 2019 by federico

Un racconto “differente” su Tomek

Davide Bubani, alpinista e appassionato gestore di Cronache Alpinistiche , magazine cartaceo e gruppo Facebook di scambio opinioni sull’Alpinismo e suoi protagonisti, ha deciso di impegnarsi nello scrivere un libro tributo a Tomek Mackiewicz , alpinista atipico, protagonista sul Nanga Parbat di una incredibile salita in stile alpino , in invernale, sulla via parzialmente iniziata da Messner ed Eisendle e completata da Tomek assieme ad Elisabeth Revol, prima del tragico epilogo : un malore in vetta, probabilmente un’edema cerebrale in alta quota, la disperata discesa trascinato da Elisabeth fino a 7200 metri e la morte.

Il libro “Tomek Mackiewicz : Il Sognatore Ribelle” è uscito per Alpine Studio edizioni , è disponibile su tutte le piattaforme online

La presentazione del libro :

Tomek Mackiewicz era un visionario che cercava la realizzazione della sua esistenza nella montagna. Il suo personale modo di frequentarla e di scalarla era lo strumento per raggiungere un sogno a lungo concepito in Polonia, suo paese di origine, che lo aiutò a uscire dalla piega sbagliata che aveva preso la sua vita. Refrattario alle regole, indifferente alle abitudini, seguiva il suo istinto, e fu proprio quello, unito a una inesauribile tenacia, a permettergli di realizzare il sogno dell’ascensione del Nanga Parbat. Aveva tentato quell’impresa sei volte, tutte in inverno. La settima, con l’alpinista francese Élisabeth Revol, che era già stata sua compagna in due tentativi precedenti, raggiunse la vetta lungo una via sulla parte orientale del versante Diamir ritenuta impossibile, che nel 2000 aveva respinto persino Messner. Sulla via di ritorno, però, sorsero i problemi fisici che portarono alla tragedia che gli costò la vita. Questo libro è un omaggio a un personaggio schivo che forse non si sarebbe nemmeno intravisto al di fuori dello stretto mondo dell’alpinismo di punta, ma che merita di essere conosciuto.

Abbiamo fatto tre domande a Davide Bubani, incuriositi da un libro che non è una biografia, non raccoglie né aveva l’obiettivo di descrivere in termini alpinistici un uomo e la sua impresa – piuttosto il racconto intimo di un viaggio interiore , alla scoperta del lato umano di Tomek, delle motivazioni più alte che guidano sulle grandi montagne donne e uomini.

– ciao Davide, ti conosciamo per essere il creatore e gestore di Cronache Alpinistiche, un magazine mensile, breve ma ben curato, a cui hai affiancato l’ideazione di una “community” su Facebook dal nome omonimo. Ci racconti brevemente il percorso di vita che ti ha portato a scrivere di Alpinismo e di donne e uomini sulle Montagne ? 

Ciao Federico, grazie infinite di questa domanda. Cronache Alpinistiche nasce come una risposta, o meglio un urlo dal cielo da una vetta di una montagna. Sono iscritto al CAI da 21 anni, sono stato in consiglio direttivo della mia sezione CAI , e ho riscontrato che non c’è sufficiente cultura alpinistica e che l’andamento del CAI non è più quello che il 1865 voleva come spirito vocazionale e che oggi dovrebbe essere ancora così, ovvero L’ALPINISMO la sua storia e l’ardore della CULTURA ALPINISTICA. Ecco che una delle tante risposte a questa aridità ha trovato fonte in questa mia idea le CRONACHE ALPINISTICHE. Diffondere informazione e appassionare le persone alla Cultura Alpinistica e perchè no, far sognare le persone.

– hai scelto di scrivere il tuo primo libro parlando di Tomek Mackiewitz , alpinista veramente atipico. Come è maturata questa tua scelta, quali sono le motivazioni che ti hanno spinto ?

Tomek è entrato nella mia vita come bere una pozione ed è entrato nei corridoi linfatici del mio corpo e testa. In tempi non sospetti ho visto in lui il sogno, la vocazione a un alpinismo vocato alle stelle e a grandi valori umani. Ho visto in lui qualcosa di non dimensionalmente inquadrabile negli standard alpinistici, ho visto in lui il Nanga Parbat. Le stesse dimensioni volumetriche del Nanga sono esattamente coincidenti con le dimensioni del Cuore e della storia di Tomek.  Ho visto in lui l’ascesa filosofica dell’anima e del corpo. Ha fatto un’impresa eccezionale e il suo ardore è stato enorme e degno di un alpinista con la A maiuscola. Alpinisti si è prima nella vita poi nell’azione in montagna.

– non hai voluto scrivere una biografia di Tomek né trattare specificatamente di alpinismo ; mi pare tu abbia scelto di raccontare, a tuo modo, un percorso di vita ; se dovessi spiegare , in poche parole, a un profano di alpinismo perchè leggere il tuo libro , cosa gli diresti ?

Caro lettore in questo libro non troverai un biografia e non troverai dati super tecnici alpinistici, trovi un percorso alpinistico di vita che parte dall’inferno fino al paradiso degli 8126 metri del Nanga Parbat, un volo che parte dalla morte ,alla vita sulla vetta del Nanga Parbat, il racconto visionario di un uomo visionario e sognatore, Tomek un uomo un alpinista che ha saputo guardare negli occhi e nell’anima della montagna più grande della terra. Nel libro potrai trovare la Vita e le sensazioni primordiali che conducono i sentimenti e l’ardore dell’uomo esploratore vocato alle stelle.

                                                                      Elisabeth Revol e Tomek Mackiewicz 

 

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Scatole Cronache IV, 4 Dicembre 2018

Posted on 4 dicembre 201814 dicembre 2018 by federico

Antartide

Danilo Callegari (c) con la slitta da 150kg sul pack

Danilo Callegari , avventuriero ed esploratore estremo – e nel suo caso la definizione non è banale – nato nel 1983 in un piccolo villaggio in Friuli, a 14 anni prese la bicicletta e da casa salì sul Monte Coglians, a 2780 metri di quota, tornando dopo 4 giorni.

A 16 anni ha deciso di camminare dalla sorgente alla foce del Tagliamento, per 182 km. Insomma, è facile pensare a un grande fuoco interiore che gli diceva di andare, oltre. Sperimentare, tutto. Camminare,correre, bicicletta, montagne, alpinismo. Poi la decisione di entrare nell’Esercito, e di trovarsi nei Reparti paracadutisti. Nel 2005 la durissima realtà di combattere 5 mesi in Iraq, un’esperienza che gli segna la vita.

Da quel momento Danilo alza l’asticella e comincia a impegnarsi in imprese sempre più complesse ed estreme, pedalando migliaia di km, pagaiando, trascinando slitte con gli sci, volando in parapendio  in Karakorum,Ladakh, Islanda, Sudamerica .

Poi l’alpinismo: Elbrus, Kilimanjaro e nel 2016 il Manaslu, un ottomila non banale, senza ossigeno e assistenza sherpa.

Da un mese Danilo si trova in Antartide, e dopo esser sbarcato nella banchisa di Weddell, vuole raggiungere il Polo Sud, senza assistenza e trainando una slitta di 150kg con gli sci per 1300 km circa. Se raggiungerà il Polo Sud, un bimotore ad elica lo raccoglierà per portarlo sul Monte Vilson, cima più alta del continente , e Danilo si paracaduterà per atterrare nella zona del Campo Base. L’obiettivo finale, scalarlo in stile alpino senza ossigeno.

Danilo, dopo 1 mese

Ora la dura realtà. Sono 1 mese e 2 giorni dalla sua partenza , ed ecco cosa scrive Danilo. Non vogliamo commentare le sue parole, ci sarebbe tanto da approfondire, dibattere, ma nella loro brutalità ed euforia sono esemplari.

“Cari amici miei, questo 2 dicembre segna un mese esatto da quando ho iniziato a trainare la mia slitta in direzione del Polo Sud Geografico. Per certi un mese potrà sembrare poco, per altri molto… per me è stato a tutti gli effetti il mese più lungo, duro, particolare e incredibile della mia vita. Sto vivendo un’avventura pazzesca, che mi sta dando moltissimo sotto ogni forma, in particolare dal punto di vista interiore. In questo mese ho affrontato i venti più forti, le temperature più rigide, le nevicate più abbondanti che abbia mai provato fino ad oggi. Il meteo, diciamo, non mi é stato per niente amico ma si sa, avventura è anche saper accettare questo. L’Antartide fino ad oggi mi sta lasciando diversi segni sul corpo, ho vesciche ai piedi ancora aperte con sangue a forza di continuare a strofinare, ho gli alluci gonfi e quasi privi di sensibilità, una tendinite al polpaccio destro, dolori alle teste dei femori per il tipo di movimento ripetuto milioni di volte che mi rende difficile anche il sonno, ho una forte tendinite ad entrambi i gomiti, la pelle del volto é mangiata dal ghiaccio, le labbra sono distrutte dal vento gelido, ho un’infiammazione alla narice destra per il continuo vento che arriva da sud ovest, ho perso parte della sensibilità delle ultime falangi di tutte e dieci le dita delle mani e ho perso molti chili ma… sono estremamente felice, sto vivendo un ambiente che solo in pochi hanno avuto l’onore di poterlo vivere così, in completa solitudine.
Solo con me stesso nel luogo più freddo, ventoso, desolato ed estremo dell’intero nostro bellissimo Pianeta.
Un fortissimo abbraccio a tutti voi,
Danilo

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Scatole Cronache I, 5 Novembre 2018

Posted on 6 novembre 2018 6 novembre 2018 by federico

Himalaya

Pumori , 25 Ottobre 2018

Il trio rumeno composto dagli alpinisti Romeo Popa, Zsolt Torok e Teofil Vlad ha aperto una nuova via sulla parete Sud Est del Pumori, iconica cima di 7161 metri che si affaccia sul Circo dell’ Everest.

nuova via pumori SE ( Romica Popa, Zsolt Torok and Teofil Vlad )

La nuova via , splendida per logica e difficoltà sostenuta, è prevalentemente su ghiaccio con passaggi di misto difficilmente proteggibili ; si sviluppa per 1100 metri, raggiungendo la cresta sommitale a 6700 . 5 bivacchi necessari, di cui tre in parete e gli ultimi due in cresta ; un giorno di riposo il primo, poi il secondo giorno l’attacco finale, avvenuto affrontando venti fino ai 100 kmh. 

in parete con everest,lhotse e nuptse sullo sfondo ( Romica Popa, Zsolt Torok and Teofil Vlad )

 

La discesa è avvenuta effettuando 1000 metri di doppie lungo la parete Ovest. La difficoltà è stata classificata come AI 4, R (il grado dovrebbe essere quello rumeno, indica una media difficoltà tipo D francese).

                            pumori summit ( Romica Popa, Zsolt Torok and Teofil Vlad )

Lunag Ri , 28 Ottobre 2018

David Lama ha realizzato il sogno, a lungo inseguito, di scalare il Lunag Ri ( 6905 metri ) , e l’ha fatto in solitaria: dopo i famosi 2 tentativi in duo con Conrad Anker, l’ultimo dei quali conclusosi con una drammatica ritirata a seguito di un infarto che ha colpito Conrad. Per ora non si conoscono i dettagli della salita, che teoricamente dovrebbe essere il completamento dei precedenti tentativi , con salita sullo zoccolo al centro sx della foto e lungo la cresta fino in vetta.

                                           Lunag Ri , 6907 metri (red Bull copyright)
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Il Drone che ha localizzato Rick Allen sul Broad Peak

Posted on 19 luglio 201819 luglio 2018 by federico

Le eccezionali immagini del drone pilotato da Bartek Bargiel, fratello dell’alpinista Andzrej ( impegnato nel tentativo di scalata del K2 e successiva discesa integrale in sci) , che mostrano Rick Allen sul Broad Peak , dato per disperso e probabilmente morto a seguito del mancato ritorno dal suo tentativo di vetta solitario.
Rick Allen, pellaccia durissima scozzese, era caduto per qualche centinaio di metri , fortunatamente senza gravi ferite, ma si era trovato fuori via.
Grazie all’aiuto del drone (e del cuoco della spedizione, il primo ad aver avvistato il suo zaino col telescopio da Campo Base) i soccorsi hanno felicemente incontrato e aiutato a scendere Rick, poi evacuato in elicottero.

bartek bargiel, pilot of drone
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Nanga Parbat : Riflessioni

Posted on 31 gennaio 2018 by federico

La brutalità degli avvenimenti sul Nanga Parbat, lo sviluppo frenetico dei soccorsi, la solidarietà sui Social e la contemporanea ondata di polemiche sul senso di queste imprese, sulle accuse e ai dubbi avvelenati, sui costi e sui Governi eccetera.

L’Epopea di Sopravvivenza e delle scelte tragiche, la straordinarietà delle prestazioni umane e alpinistiche, la commozione e la gioia per un salvataggio incredibile.

Il dolore per la morte di Tomek Mackiewitz, così tragica e allo stesso tempo già in corso di elaborazione trasfigurante, il processo collettivo di realizzazione improvvisa della sua figura complessa e contradditoria eppur così pura e spirituale, della sua ossessione e del suo sogno, leggero e innovativo, ascetico, folle.

tomek mackiewitz

“Il Custode del Nanga”, ora lo chiamano : non più il matto, il drogato, lo sconsiderato.

Il rispetto e l’ammirazione per una donna come Elizabeth Revol, capace di sopportare un fardello gigantesco di responsabilità, attaccata alla vita con una determinazione incrollabile, dignitosa e in piedi, rifiutando le stampelle, prima di essere portata in Ospedale. Ora dovrà affrontare le dure conseguenze fisiche e psichiche di un’avventura ai limiti della sopportazione umana, e che già viene assillata sui Media da giudici improvvisati, che reclamano spiegazioni e prove.

L’ipocrisia e l’ignoranza di coloro che urlano rabbia perchè nessuno ha voluto salvare Tomek, ecco credo che queste cose offendano proprio la sua Memoria. Tomek sapeva perfettamente cosa faceva e cosa rischiava. Nelle sei volte precedenti che ha tentato il suo sogno sul Nanga Parbat, aveva sempre dimostrato di sapere quando era il momento di rientrare a valle, di non rischiare inutilmente la pelle. Amava follemente i suoi figli e sua moglie, voleva tornare a casa.

Da quello che sappiamo ha cominciato a star male in vetta, a 8126 metri. Quando Elizabeth l’ha lasciato, la mattina dopo, dopo un bivacco all’aperto a 7500 metri e una discesa disperata fino ai 7200 metri, non era più in grado di muoversi, di vedere e i congelamenti erano gravi. Per quanto fosse un uomo di resistenza straordinaria, sappiamo dalla letteratura medica e dai precedenti, che nel giro di 48 ore la morte è certa, in caso di edema cerebrale, se non si viene curati e portati immediatamente a quota bassa.

Potremo parlare in futuro, e succederà, su quanto fossero adeguatamente acclimatati, sul fatto che la finestra di bel tempo era troppo ristretta, che hanno attaccato la vetta da troppo lontano.

A volte è solo maledetta sfortuna, perchè Elizabeth non solo non ha accusato problemi, ma è sopravvissuta i giorni successivi in condizioni inumane e mortali.

Tomek Mackiewitz ed Elizabeth Revol hanno aperto e completato, in stile alpino, la via iniziata da Messner ed Eisendle sul lato estremo del Diamir, arrivati alla sella a 7500 metri sul Basin , sono scesi davanti al trapezio sommitale, incontrando la via Kinshofer, sono saliti in vetta .

D’ora in avanti parleremo della via Mackiewitz-Revol e di una delle prime invernali in puro stile alpino.

I polacchi. Non si devono spendere troppe parole, come bruscamente ha ricordato Wielicki. “Abbiamo fatto quello che dovevamo fare”. Hanno salvato una vita umana e hanno nobilitato enormemente lo spirito della vera comunità alpinistica, la Brotherhood of Rope.

Dove un russo, poi naturalizzato kazako, poi un po’ italiano bergamasco, poi naturalizzato polacco, è corso incontro a una francese , trovandola al buio della parete e salutandola in inglese “Elizabeth ! Nice to meet you”

denis urubko,eli revol,adam bielecki

 

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